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MARTEDÌ 18 SETTEMBRE 2018 - STAMPA

FOTO - ANCELOTTI, SPALLETTI, ALLEGRI E DI FRANCESCO COME I BEATLES DI ABBEY ROAD


Carletto è l'unico tecnico con la 'Coppa dalle grandi orecchie'


 
     
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A cura di: Maria Villani
Fonte: Corriere dello Sport

Max, Carletto, Lucio, Eusebio. Il Dentone, la Volpe argentataPsycho e Fil di Ferro. Quattro modi diversi di bussare alle porte dello stesso paradiso. Ognuno con il suo Bob Dylan da cantare nella testa. Ognuno con la sua libido da prima volta o da replica. La Coppa dalle grandi orecchie è sempre più l’oppio dei ricchi.«Una bella sensazione» la definisce Ancelotti, uno che se ne intende. L’odore e la lussuria sono le stesse delle belle donne. Sempre di ossessione si tratta. E di redenzione. Ma anche una liberazione. Dal calcio che si mastica a casa nostra, sempre più una parrocchia poveraccia, una messa stonata, un non vorrei e non posso. Un romanzo bolso in cui dopo quattro giornate sai già chi sarà ad esultare e chi a deprimersi, senza che nessuno trovi più nemmeno la forza di fare l’uno o altro. Una fuga anche e forse soprattutto dalla musica. Dalla gazzarra inconcepibile e pure concepita di Giovanni Allevi verso l’epica semplice ma incisiva dell’inno ispirato a Haendel, che se lo ascolti da casa ti senti Tamerlano, figuriamoci se stai sul posto, in mutande da eroe. Quella del calcio è l’unica Europa che fa buon sangue e non mente e, anche quando sono lacrime, sono per qualcosa che hai vinto o sognato di vincere.

MAX - Da giovane gli piaceva cazzeggiare, ma da quando è alla Juve gli viene di farlo molto meno. A Torino ha imparato che vincere non basta. Non sei nessuno se non sei fotografabile con quella cosa in mano. Non fa altro che ripeterlo, Max, che la Champions non deve essere un’ossessione, confessando così quanto lo sia per lui. Si dice che la notte vada a dormire nel suo presumibile pigiama a righe bianconere avendo Ambra alla sua destra e la fotografia di Arrigo Sacchi alla sua sinistra, amando l’una, in attesa di fare a pezzi l’altra. Smanioso di spernacchiare infedeli e bastardi che lo bacchettano da sempre per il deficit estetico del suo calcio, pontificando che sarebbe questa la causa del suo non aver ancora vinto nulla in Europa. Voleva dare il Maalox a Ibra per i suoi mal di pancia, ha dovuto prenderlo lui per le due finali che gli sono rimaste nello stomaco. Ormai la Champions per lui è una storia di caccia grossa. Max si sente Hemingway (da giovani si somigliavano un po’, al netto della barba) alla vigilia del suo ultimo safari. Adesso, da Madrid, gli è arrivata anche la carabina giusta. Non ha più scuse.

CARLETTO - Detto anche Carlo Magno dall’immaginifica, si fa per dire, stampa spagnola. Uno che sulla sua libido da Champions ci ha pure titolato l’autobiografia (“Preferisco la coppa”). L’unico dei quattro ad averla vinta da calciatore (due) e da allenatore (tre). Di sicuro, sa bene di che si tratta. Come si vince e come si maneggia. Aurelio lo ha voluto e se lo coccola per questo. E’ la sua Sofia Loren. Sogna di portarselo in carrozza a Cannes. Là dove il Sarri impresentabile in tuta e fin troppo focalizzato sui cortiletti nostrani lo deprimeva (e chissà quanto gli fa salire la bile vederlo ora a Londra in versione dandy, giacca e cravatta). Da sempre saggio, Carletto, e ora anche uomo di mondo, si accarezza la circonferenza quanto basta per capire che la pancia non è piena. Vincere la Champions a Napoli significherebbe mandare San Gennaro a casa a versare acqua. E diventare il Bambin Gesù di tutti i presepi di San Gregorio Armeno, esibito al Maschio Angioino e portato in processione con tutta la numerosa famiglia dal San Paolo a Posillipo.

LUCIO - Darebbe la sua celebre collezione di martelli in cambio di una Champions. Ne ha vinti quattro di trofei con lo Zenit, tre con la Roma, tutti nazionali. Ha detto che la Champions è il luna park del calcio, nel suo caso di sicuro un ottovolante. Estasi e tormento che, nella sua complicata testa sono spesso la stessa cosa. I trionfi di Madrid e di Lione con la Roma, l’umiliazione di Manchester. Mai andato oltre i quarti, una volta con la Roma. Lucio è l’unico dei quattro con una modesta storia da calciatore, un baco che gli resta nella testa. Una sola cosa gli manca per gridare al mondo quello che pensa davanti allo specchio, di essere cioè il migliore di tutti: stringere la grande Coppa tra le sue gigantesche e temibili mani di contadino. Quando è arrivato all’Inter ha evocato i fantasmi mitologici di Helenio Herrera e di Mourinho. E’ arrivato il momento di farci i conti.

EUSEBIO - Se la classe operaia va in paradiso, lui, il paradiso, l’ha sfiorato da poco, con la fortuna del debuttante ma anche l’applicazione spasmodica che sa mettere nelle cose. L’unico trofeo l’ha vinto da calciatore, lo scudetto con la Roma. E’ andato vicino a una finale di Champions, senza mai aver vinto nulla. Un po’ di destino è dalla sua parte, a cominciare dal nome, esplicito omaggio del padre alla pantera nera portoghese. Quella Roma non c’è più. Smantellata pezzo a pezzo scientificamente. A Eusebio non resta che scalare l’Himalaya. Una storia perfetta sarebbe per uno che, quindicenne, faceva il cameriere nell’albergo di famiglia a Sambuceto e che, da ex calciatore, non trovava disdicevole, anzi, fare il bagnino nella spiaggia di casa.

Champions road, la banda dei quattro