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VENERDÌ 2 AGOSTO 2019 - ESCLUSIVE

ESCLUSIVA – DR. DE NICOLA: “A NAPOLI 14 ANNI DI EMOZIONI E AMICIZIE; HAMSIK COME UN FIGLIO E CAVANI ‘TERAPEUTICO’…”


"Nicolas Amodio, esempio di disciplina nella patologia; il dono di Ghoulam ai ragazzi del centro..."


 
     
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A cura di: Maria Villani
Fonte: Napolicalcionews

È stato il responsabile dello staff medico del Calcio Napoli fino a un mese fa, adesso per il Dr. Alfonso De Nicola è iniziato un nuovo percorso professionale ed umano con l’apertura e la gestione del Centro Medico One ad Amorosi, in provincia di Benevento. Da gentilissimo padrone di casa ci riceve nel suo studio e accetta di buon grado più che un’intervista, una chiacchierata, un piacevolissimo scambio di idee su sport, medicina e, ovviamente, la sua esperienza in azzurro.

Cari amici di Napolicalcionews.it, siamo venuti a trovare il Dr. Alfonso De Nicola: medico sportivo, medico, uomo di sport. Lei è infatti un appassionato di motori, vero Dottore?
Non solo. Io credo molto nell’aggregazione, mi piace l’aggregazione: i miei migliori amici sono quelli che hanno giocato a calcio, a tennis con me, quelli che sono venuti in moto con me. La passione dei motori è una cosa che ho sempre avuto e mi ha creato un’aggregazione con le persone che hanno la stessa mia passione.

Ed è una cosa bellissima.
Sì, perché poi la vita è questa: stare insieme tra persone che si vogliono bene e anche il lavoro è la stessa cosa. Il lavoro cos’ è? È lo stare insieme e far qualcosa che ci piace fare. Noi tutti vorremmo sempre lavorare e fare il lavoro che ci piace di più, perché non ce ne accorgiamo proprio… ci divertiamo. Io poi mi diverto a lavorare, mi diverto a fare questo lavoro che è quello che mi ha insegnato mio padre.

L’ “arte” medica: una grande arte, più che una professione, come disse una volta un medico.
Sì, anche se poi nel campo medico di errori se ne fanno tantissimi! E noi quando sbagliamo possiamo anche fare errori che costano la vita…

Una grande responsabilità…
L’errore è dietro l’angolo, puoi sbagliare sempre: capisci un qualcosa per un’altra cosa e altrettanto il tuo paziente, l’amico tuo o la persona che ti ha chiamato muore… questo può succedere. Come possiamo dunque fare per evitare ciò? Innanzitutto dovremmo cercare di capire prima le patologie che possono venire dopo.

L’importanza della prevenzione, dunque.
Sì, la prevenzione è troppo importante! E partire dalle patologie più importanti. E quali sono queste patologie più importanti? Sono quelle definite ‘quoad vitam’ (strettamente inerenti alla vita ndr), patologie che possono causare la morte oppure no. Se noi riusciamo a far prevenzione delle patologie più importanti, che già è tanta roba, poi possiamo fare prevenzione di patologie meno importanti, o, per meglio dire, apparentemente meno importanti, apparentemente…

Perché apparentemente?
Perché l’uomo ha una cosa chiamata cervello! Perché quando un calciatore che ha cambiato la sua vita, perché un calciatore a 14 anni è un ragazzo, un figlio di chi? Non si sa. O meglio, può esser figlio di una persona ricchissima, che sta benissimo, ma il più delle volte è figlio di persone che ricche non sono.

Usiamo una parola impropria: un ‘figlio delle favelas’…
Uno di questi ragazzi si trova improvvisamente, o meglio ancora, un po’ alla volta, dedicandocisi e facendo sacrifici, a fare il calciatore che è il proprietario della propria azienda e che guadagna tantissimo. Ma si può trovare di fronte ad un infortunio e quindi ritorna indietro. E questo per lui è un problema grossissimo! Per ognuno di noi ogni problema che può sembrare piccolo è un problema grosso. Io vedo persone che vengono da me a visita, e alcuni non hanno veramente niente di significante, di importante, perché non hanno patologie che sono quoad vitam come ad esempio un tumore, un infarto, patologie gravi. Si tratta invece di patologie semplici, ma per loro sono gravissime! Ad uno che ama la corsa e che va a correre tutti i giorni e tu gliela levi perché ha una tendinite dell’achilleo, tu a quello lo hai ucciso!

Perché gli togliamo una ragione di vita, possiamo metterla così?
Una ragione di vita che il più delle volte gli dà anche da guadagnare, nel caso di un atleta professionista, un calciatore. Allora noi cosa dobbiamo fare? Dobbiamo innanzitutto cercare di prevenire queste patologie perché prevenendole, abbiamo sempre a che fare con persone sane. Il momento in cui si ammalano, diventano delle persone malate e il malato è malato. Che sia la tendinite che non gli consente di fare la propria attività, o che sia una patologia molto più grave che non gli consente di fare la propria attività, è malato e si sente malato. Dobbiamo quindi curarlo. Se riuscissimo a prevenire tutte le patologie sarebbe la cosa migliore, ma questo è l’obiettivo finale. Vorremmo sapere almeno a quanti anni avrò la cataratta. Ecco, noi questo possiamo vederlo, possiamo vederlo con degli studi per esempio sul DNA, che noi stiamo cercando di fare anche per capire gli atleti fino a che punto possono andare avanti e quando invece vanno limitati, perché c’è sempre il problema del ‘qual è il punto massimo’ di allenamento.

Questo ricorda il compianto Pietro Mennea che, per il troppo allenamento, perse la finale delle Olimpiadi di Montreal contro Valerij Borzov nel lontano 1976.
Esatto! È chiaro che l’ ‘overuse’, un eccessivo allenamento, ti può provocare noie. Per un periodo si è pensato, molti pensavano, - io vengo dallo sport dilettantistico - e si diceva: ‘beh, alleniamoci come i professionisti ed abbiamo risolto’. Non è vero! Il nostro fisico non può consentirci di allenarci come i professionisti, perché ci possiamo rimanere secchi, stecchiti! Il nostro cuore, il nostro motore, non ce la fa.

È una cosa seria, dunque, anche per chi vuol far sport, programmare la propria attività sportiva con il medico di fiducia per vedere il proprio corpo che energie fornisce.
Esatto, fin dove può arrivare, che energie può fornire.

Un calciatore, di Serie A, o meglio, un calciatore in generale, è più recettivo quanto a prevenzione delle malattie, non solo per se stesso ma anche per i figli ad esempio?
Sì, adesso sì; qualche anno fa un po’ meno, prima ancor meno, perché (alla prevenzione) si dà molta importanza. Quello che abbiamo fatto nello staff nostro – dico ancora ‘nostro’ (staff medico del Calcio Napoli ndr) – è essere stati sempre dei martelli. Abbiamo detto: ‘tu non devi arrivare ad avere quella patologia, la devi prevenire perché tu potresti averla’. Questa è una cosa che a noi, tra l’altro, ha portato una soddisfazione enorme perché siamo stati riconosciuti come il gruppo che, nel mondo, dalla UEFA, da indagini statistiche che hanno fatto, ha saputo prevenire meglio di tutti. Come abbiamo fatto? Con un metodo preciso che è un metodo di ricerca scientifica ben preciso: abbiamo visto innanzitutto quali erano le patologie che causavano la maggior parte delle indisponibilità; in quel caso abbiamo visto che si trattava, nel 78% dei casi, nel campionato di calcio, di lesioni muscolo-tendinee. Ci siamo chiesti: ‘come possiamo fare per prevenire queste lesioni muscolari? Facciamo le tecniche Mezieres, ‘facciamo la storia’ dei neuroni mirror, facciamo tutto quello che dobbiamo fare, che possiamo conoscere, per evitare che questo succeda.

Sui neuroni mirror, ne parliamo ancor meglio dopo; adesso una domanda va fatta: dopo 14 anni di matrimonio, riuscitissimo peraltro, con il Calcio Napoli, qual è il suo consuntivo, cosa si porta nel cuore?
Innanzitutto devo dire che mi porto le conoscenze, le amicizie che ho fatto nel calcio che sono state bellissime, soprattutto con alcuni atleti con i quali mi sento ancora, e con i quali c’è un grande affetto.

Se la sente di fare qualche nome?
Beh, il nome per il quale mi prendevano in giro dicendomi: ‘Ma che sei, il papà?', è Marek Hamsik! Ho chiamato anche il mio cane Marek! È un mio figlioccio, un mio figlio. Io Marek lo adoro: è venuto che aveva 19 anni, si è affidato a noi e poi è stato grandioso perché, a parte la sua bravura, è stato bravo in tutte le sue manifestazioni, sempre misurato, posato, tranquillo, ragionevole. Appena venne – ragionavamo su alcune cose – io gli dissi: ‘A che serve guadagnare tanto?’ – facevo un discorso con lui, così. La vita te la cambi se da 30mila, 50mila Euro l’anno vai a guadagnare un milione, allora te la cambi la vita. Ma da un milione a 15 milioni, non te la cambi la vita, sei già ricco!’. Allora a Marek dissi: ‘Tu sei un giocatore che dovrebbe guadagnare almeno 10 milioni l’anno!’. Lui viveva un momento un po’ così, di difficoltà con l’allenatore, non veniva troppo compreso…

Nel 2014?
Non lo so l’anno, non me lo ricordo, diciamo qualche anno fa. Bene, allora lui mi disse: ‘Ma tu non mi avevi detto questo?’ Ma come, io te l’avevo detto il primo anno che sei arrivato, mica me l’ero dimenticato! ‘Non mi avevi detto che la vita te la cambi solo quando passi da…’… per dire, Marek è un ragazzo che ha dei valori, valori importanti.

Ed ora è andato a guadagnare davvero tanto in Cina.
Ed io sono molto contento per lui. L’altro giorno l’ho sentito, la prima cosa che mi ha detto è stata: ‘Lo sai che stanno venendo Martina, Christian, Lucas e Melissa qui da me?’.

Lo sta raggiungendo la famiglia!
La famiglia andava, credo, ieri o l’altro ieri: ci siamo sentiti per il suo compleanno, il 27 luglio, pochissimi giorni fa. Come con lui ho avuto lo stesso rapporto anche con tanti altri, tanti altri che adesso sono via: qualcuno in Cina, qualcuno in Italia, qualcuno ha smesso, molti hanno smesso… ed stato sempre un bel rapporto, bellissimo. Questa è la cosa più bella dei 14 anni, devo dire la verità.

L’amicizia.
L’amicizia con gli atleti ma anche con gli altri membri dello staff tecnico. Oggi mi ha telefonato una persona e mi ha fatto un piacere enorme! Una persona con cui ho lavorato 5 anni, che mi ha telefonato per dirmi: ‘Ma come stai?’, in un momento mio che dovrebbe essere triste mi ha chiesto ‘Come stai?’; non me l’ha chiesto in un momento bello, in tante cose belle che ho vissuto non ci siamo mai sentiti, o ci siamo sentiti così, poi mi ha raccontato un fatto suo: ‘No, ma volevo sentirti’. Queste sono le cose belle di 14 anni: le amicizie.

Dries Mertens è ormai naturalizzato napoletano ed è, impropriamente detto, un calciatore che si è ‘snaturato’ dal suo ruolo di esterno per fare il centravanti: da medico pensa che la propensione di Mertens per le lingue (parla napoletano, parla italiano), possa aiutare lui ed un qualsiasi altro calciatore a spostarsi con successo in un’altra zona del campo?
Io credo di sì, ho visto tanti calciatori che hanno una facilità di linguaggio; se vediamo ad esempio il nostro Vlad Chiriches, dopo due giorni parlava perfettamente l’italiano! Credo che l’intelligenza si misuri con la capacità di adattarsi alle situazioni: chi è capace di intraprendere subito, di capire subito questi percorsi, è sicuramente una persona molto intelligente. Non parliamo di singoli perché io voglio bene a tutti, ma veramente a tutti, anche ai ragazzi che non mi stimano come vorrei (ci sono alcuni che ti stimano di più, altri che ti stimano di meno). Devo dire la verità, però, il bene c’è per tutti, perché sono tutti bravi, bravissimi ragazzi, i ragazzi sono tutti eccezionali! Qualcuno ha qualche difficoltà, un po’ di ambientamento, un po’ per altro, ma sono bravi, bravi, bravi. Un’altra persona di una simpatia enorme ad esempio è Amadou Diawara.

Eppure non si direbbe, sembra una persona chiusa.
Amadou Diawara è un ragazzo simpaticissimo, sempre sorridente, sempre! Non l’ho mai visto male, mai! Mai una volta che sia stato scortese, sgarbato. Poi ci sono altri che sono educatissimi, ma non voglio fare nomi, non mi va.

Carina questa chicca su Diawara perché a guardarlo dall’esterno sembra, invece, un ragazzo un po’ chiuso, che non dà tanta confidenza.
Soffre molto il fatto di essere scuro di pelle, lo soffre, però è un simpaticone, un ragazzo semplice, d’oro. E non è l’unico, perché poi ce ne stanno tanti. Ma tutti sono così, tutti quanti. Se dovessi dire che ce n’è uno che mi sta antipatico, non lo posso dire, né nel Napoli attuale, né in quello passato, mai; non ce n’è stato mai uno; qualcuno ha avuto con me qualche attimo di… però li capisco e non posso dire che è una persona in particolare sia più antipatica di un’altra.

Quindi un bilancio positivo.
Bilancio positivo: io credo che noi siamo stati capaci, i nostri direttori sportivi, i nostri allenatori, il presidente, tutti, siano stati sempre capaci di prendere dei ragazzi molto simpatici in società.

Il che aiuta…
Il che aiuta tantissimo nella comunicazione, ma infatti il pubblico napoletano adora i calciatori.

Alcuni in modo particolare perché si sanno porgere di più, soprattutto ai ragazzi.
Quello è molto importante. Mi ricordo una volta, Marek: finimmo una partita una domenica e io dissi: ‘ora rimango qui perché domani mattina devo andare a una scuola a parlare a dei ragazzi’; lui mi fece: ‘Voglio venire pure io!’ ed è venuto! Si è svegliato alle 7 di mattina dopo la partita che avevamo giocato la sera, finito alle 11!

Com’è stata l’accoglienza dei ragazzi?
Volevano che Marek andasse ogni giorno, poverino non poteva… è stato eccezionale! I ragazzi di questa scuola media gli hanno fatto molte domande, gli chiedevano, ad esempio: ‘Dove passi le vacanze?’ e lui raccontava tutte le sue esperienze: è stato bravissimo! Mi è piaciuto assai perché è voluto venire. Come pure mi è piaciuto Ghoulam quando disse: ‘Devo comprare una maglietta mia a ogni bambino che fa terapia nel tuo centro’. Io dissi: ‘Ma no, Faouzi, non ce ne è bisogno’; ‘Lo devo fare’ disse. Ogni ragazzo di loro ha un cuore grande e ha tante cose che vorrebbe fare, però purtroppo il ruolo che hanno è quello che è e quindi a volte lo possono fare e a volte no. Però sono amatissimi dalla gente, dai napoletani, soprattutto perché ci sanno fare. E io credo che siano stati scelti anche per questo, credo che nella scelta ci sia una componente caratteriale importante. Oppure, comunque, quando vengono, tirano fuori il meglio di sé.

Lei tratta anche ammalati molto giovani: quanto il rapporto con i calciatori influisce sul percorso terapeutico dei piccoli ammalati?
È importantissimo! Mi ricordo una volta – facevo la riabilitazione al mio centro di Cerreto Sannita – c’era un ragazzo di 17 anni che era uscito dal coma e la mamma non riusciva a capire se il figlio la capisse o meno. Era una cosa da piangere solo a vederla. Venne Cavani, il ragazzo parlò con Cavani, il giorno dopo questo ragazzo scrisse un messaggio al cellulare. Capiva tutto e non riusciva a muoversi, a comunicare. Io non so come sta adesso, spero che stia bene, l’ho perso di vista e questo mi dispiace molto. È stato uno dei motivi per cui io voglio lavorare così, qui, voglio lavorare con questa gente, perché è questo che mi piace.

E adesso ecco un nuovo capitolo della sua vita e della sua professione: il Centro One ad Amorosi. Com’è nato?
È nato soprattutto per esigenze lavorative, ma è un’esigenza nata soprattutto dal fatto che ho due figli che studiano medicina: volevo che loro continuassero, volevo lavorare con loro. Loro stanno ancora studiando molto, si stanno dando da fare tutti e due e la cosa mia più bella è stata lavorare con mio padre.

Medico a sua volta?
Sì, anche lui medico. Mio padre era un medico generico e la mia prima esperienza lavorativa è stata con lui e devo dire, al di là delle cose che mi ha insegnato, che è stata la cosa più bella della mia vita: lavorare con mio padre. E mi piacerebbe lavorare con i miei figli. Lo dico sempre a Davide Ancelotti e lui lo sa, è la cosa più bella che esista. Perché lui può fare tutto, tanto c’è il padre, non so se mi spiego. Io avevo mio padre, potevo sbagliare, papà diceva: ‘Non ti preoccupare figlio mio, è giusto che sbagli, ci penso io’.

Il Centro si occupa di prevenzione e riabilitazione.
Prevenzione e riabilitazione, poi io vorrei fare molta ricerca qui, perché ho un territorio che si presta alla ricerca e poi vorrei fare formazione perché mi piace, cioè, quello che ho detto dei miei figli, mi piacerebbe farlo in generale.

Insegnare medicina?
Insegnare, io e quelli che lavorano con me, passare le nostre esperienze a loro, fare in modo che anche loro credano nella ricerca, credano nei valori sani della medicina: la ricerca, la formazione. La formazione è fondamentale perché se tu non sai è inutile, non riesci a fare. Questo è ciò che penso io.

Il rapporto tra sport e medicina, è un ‘matrimonio’ che va da sé.
Sì, a dir la verità mi sono sempre divertito moltissimo a fare sport, lo sport mi ha dato la forza di fare medicina. Mi ricordo quando ero ragazzo, avevo 14 anni, papà non voleva che io facessi sport, che giocassi a calcio, voleva che io studiassi solamente. E io me ne scappavo di casa, e mi dicevo: ‘Ma tanto io mi diverto e allo stesso tempo ho il compagno che si fa una distorsione alla caviglia, io mi faccio male al muscolo’: erano tutte esperienze. Studio, lavoro e divertimento insieme. L’aspetto ludico dello sport, l’aspetto ludico della medicina, perché la medicina va affrontata anche e soprattutto con un aspetto ludico. Ti deve piacere, ti deve appassionare. Quando mi iscrissi a medicina c’era gente che diceva: ‘Io faccio il medico perché così lavoro e guadagno subito’ e io rispondevo: ‘No, non lo devi fare per questo, lo devi fare perché è bello, è troppo bello!’. Perché è veramente bello capire come funziona e trovare le soluzioni: è bellissimo! però bisogna studiare tanto, tanto, tanto.

E c’è qualche atleta che si è appassionato?
Sì, tanti atleti e quelli che avrebbero voluto arrivare a certi livelli e poi sono diventati dei grandi fisioterapisti. Ma sapete che nello staff del Napoli tutti hanno giocato a calcio? Tutti!

Quindi conoscono le problematiche dall’interno.
Le hanno vissute. Uno dei terapisti che sta al Napoli ha rotto il crociato anteriore e si è fatto da solo la riabilitazione, io lo feci operare e gli diedi delle indicazioni di massima e lui ha poi sperimentato su se stesso che cosa significa. Quindi quello che ti passa per la testa quando dormi la notte dopo che ti sei fatto male, lui lo sa, l’ha vissuto, lo sa raccontare.

Quindi è in grado di creare un rapporto speciale, empatico, come ha detto lei, con il calciatore che al momento vive l’infortunio e lo sgomento che l’accompagna.
Esatto! Entra in empatia più facilmente, secondo me. Entrare in empatia è una grande cosa. Entrare in empatia significa vedere una persona che piange e mettersi a piangere insieme a lui oppure vedere una persona che ride e ridere insieme a lui.

È l’assist che mi ha servito sui neuroni a specchio: la loro importanza nella riabilitazione di un calciatore che quando rompe un crociato, ad esempio, non deve fare riabilitazione in palestra, ma a bordocampo, guardando i compagni che si allenano.
Non deve stare con quelli che stanno come lui o peggio di lui, deve stare con la gente normale perché quello è il suo obiettivo. Noi abbiamo avuto dei risultati eccezionali nella riabilitazione anche per questo: perché li abbiamo portati sul campo. Quando si fece male uno dei nostri attaccanti che adesso è un punto di forza della nostra squadra, io lo portai sul campo il giorno dopo o dopo due giorni che era stato operato.

Parliamo di Milik?
No, Milik è venuto dopo, io parlo di prima, ma non facciamo nomi, tanto è semplice, si capisce… è un grandissimo italiano, napoletano… lui si mise là a guardare. A guardare chi? Quello che lo sostituiva e che tirava in porta e mandava la palla nel sette. Che cosa succedeva nella sua mente? Diceva: ‘Io non devo calciare perché se calcio mi faccio male’, però la sua area motoria si attivava per mandare la palla lì. Il primo tiro che ha fatto ha mandato la palla nel sette; perché quel movimento, coordinato, complesso, lui l’ha subito utilizzato per intero: appena ha avuto la possibilità, quando noi gli abbiamo detto: ‘Ok, puoi calciare’, lui l’ha calciata in quel modo e ha calciato bene.

Come l’aveva immaginato.
Come l’aveva immaginato, esatto.

E questa prassi medica e riabilitativa, lei la applica anche qui, con dei pazienti che non sono atleti?
Sì, questa è una cosa che i miei colleghi mi dicono: ‘Ma così dai nostri centri se ne scappa la gente!’. Non è così: noi nei nostri centri dobbiamo metterli in condizione, dobbiamo abbinare le due cose e mai dimenticare che la riabilitazione è soprattutto empatia, empatia con gli altri. C’è gente che se sta insieme ad altri malati si ammala! Il problema serio dei calciatori è quello. Allora i calciatori devono stare nello spogliatoio; non sono quelli che stanno bene che devono farsi condizionare da quelli che stanno male, sono quelli che stanno male che devono farsi condizionare da quelli che stanno bene. Questo è il nostro compito, noi stiamo lì, assistiamo a questo, quando ci rendiamo conto che questo non succede, naturalmente, prendiamo le nostre precauzioni, cioè ci comportiamo di conseguenza.

Sport e salute: un giocatore del primissimo Napoli, allora Napoli Soccer, Nicolas Amodio, che ricordiamo con affetto…
Con tanto affetto, è un bravissimo ragazzo!

Amodio aveva un problema di salute importante: il diabete giovanile, patologia serissima, eppure ha giocato a buoni livelli. Può Amodio essere definito come la prova vivente che una malattia così grave non dev’essere un ostacolo, per un giovane calciatore, o un qualsiasi altro atleta che vuol praticare sport?
Assolutamente! Il diabete è una patologia che ti fa crescere. Amodio è una persona molto matura e sapeva curarsi. Gli dicevo: ‘Ma ora che fai?’, mi rispondeva: ‘Io ho la penna e mi faccio la terapia’. Poi lo feci seguire da un gruppo di specialisti, i migliori che esistevano nella nostra zona e mi dissero: ‘Guarda che il ragazzo già è preparato, pronto’. Un ragazzo di una intelligenza superiore alla norma e io credo che questa intelligenza gli si sia sviluppata proprio per la voglia di vivere: di sopravvivere e di vivere soprattutto in modo normale. In questo caso lo sport lo ha aiutato tantissimo, perché lui ci teneva moltissimo a fare il calciatore, tant’è che l’ha fatto ed è arrivato anche a certi livelli, in Serie A. Insomma, nello spogliatoio nessuno ha mai pensato che Nicolas Amodio avesse un problema. Questo noi l’abbiamo fatto con lui.
In passato mi è capitata una situazione molto peggiore a Bari.

Perché lei è stato anche medico sociale del Bari, oltre che responsabile dello staff medico a Napoli.
Per 10 anni sono stato medico del Bari e appena arrivo, pronti… via, trovo uno malato, ma ammalato serio: di HIV, di AIDS!

Una cosa molto grave…
Ovviamente non l’abbiamo detto, l’abbiamo tenuto nascosto finché abbiamo potuto. Io ho informato tutti, dal presidente a tutti i calciatori   che sono stati esemplari. All’epoca il capitano della squadra era Gaetano De Rosa, grande amico mio ancora adesso, ma grande persona, che riuscì a convincere tutti i calciatori che non c’era niente di male che questo ragazzo avesse questa patologia.

Questo lo ha, ovviamente, aiutato a superare la cosa.
Questo lo ha, ovviamente aiutato a superare, il ragazzo mi ha telefonato un po’ di tempo fa, credo un annetto fa, e mi meravigliai: ‘Ma come, ancora ti ricordi di me?’. È vivo, mi veniva da piangere, da commuovermi, è stato eccezionale e per me è stata una tragedia riuscire a dirgli che stava male e che aveva quel problema, perché gliel’ho dovuto dire. Ma devo dire che tutti hanno capito, quindi vuol dire che i ragazzi, se ci si parla bene, capiscono, capiscono tutto. Molte volte noi vediamo i giocatori come un po’ strafottenti: non è vero, sono ragazzi normali che vanno capiti. Normalissimi. Ovviamente hanno delle aziende delle quali loro sono responsabili perché guadagnano tanto. Immaginate che un ragazzo dell’Africa, per esempio, deve provvedere a tutta la sua tribù.

Una famiglia a livelli esponenziali…
Una famiglia di 100 persone. Questi qua hanno delle responsabilità enormi. Più delle volte i ragazzi con i quali abbiamo a che fare sono ragazzi che vengono da situazioni abbastanza brutte, dalle favelas che abbiamo nominato prima. Quanti calciatori vengono da quelle realtà!

Alimentazione e sport: intolleranze, allergie e difficoltà a mangiare determinati cibi, oppure le restrizioni alimentari per gli atleti di religione islamica. Come si coniuga tutto questo con una sana attività sportiva?
Innanzitutto oggi abbiamo prodotti e integratori che sono veramente eccezionali; noi potremmo vivere benissimo senza neanche mangiare, però se mangiamo bene è meglio. Mangiare bene significa mangiare poco, mangiare le cose giuste, ma soprattutto di provenienza sana, perché è logico che l’antiparassitario può darti dei problemi, oppure, quello che ho visto io ultimamente, circa la ‘Terra dei Fuochi’, è stata una cosa che ha condizionato moltissimo. Abbiamo dovuto cambiare completamente le nostre abitudini alimentari. Leggevo ultimamente che, una verdura di adesso contiene il 30% delle vitamine e delle sostanze sane della verdura di una volta: una cosa che non ci si crede! Acqua fresca… perché il terreno va cambiato, il perché lo studieranno poi i biologi, però è così. E questo cosa significa? Mica che devi mangiare tre volte la verdura che mangiava tuo nonno? Significa che devi mangiare in modo sano e devi sapere dove prendi le cose; questa è un po’ la malattia di oggi, tutti noi viviamo questo tipo di problematica. Esistono anche gli integratori e faccio un esempio: la vitamina C, fondamentale per la nostra vita. La vitamina C si ingerisce solamente consumando cibi che la contengono: arance, kiwi, ma se prendiamo la roba buona, altrimenti non va bene. Un po’ i gusti sono anche cambiati ma comunque l’alimentazione è fondamentale, sono fondamentali tutti quanti i componenti che sono in natura e che devono alimentarci. Adesso esistono delle patologie che prima non esistevano e la cosa è abbastanza seria, però lo sport ti aiuta anche in questo, perché se vuoi fare sport devi mangiare bene e sano.

Piermario Morosini e Davide Astori: quanto la medicina può ancora fare per evitare che morti così improvvise e dolorose possano ripetersi?
Io credo che il vero progresso è la tecnologia: noi medici dobbiamo essere aperti alle tecnologie, dobbiamo riuscire a capire in che modo la tecnologia ci può aiutare. Questo connubio ci può portare a una prevenzione seria: la prevenzione delle patologie articolari la possiamo fare perché la possiamo fare con analisi del movimento e quella è tecnologia. Perché non possiamo fare una analisi approfondita, ad esempio, dell’apparato cardiaco, che è responsabile di alcune morti improvvise? Credo che dobbiamo studiare molto e questo è un grosso fallimento della medicina. Questo di Astori e Morosini è uno dei più grossi fallimenti della medicina. E non ci dobbiamo fermare. Ho un caro amico che si chiama Davide Polito che si occupa della prevenzione della leucemia, il quale mi ha detto: ‘Ma perché non facciamo questo passaporto ematico?’. Non lo so perché non lo facciamo. Non riusciamo a farlo.

Se ne era parlato di passaporto ematico, anche nel Napoli.
Se ne parla sempre. Perché i minori di 18 anni non devono fare il prelievo di sangue, prima di avere l‘idoneità, perché qui, perché là… stavamo cercando di fare tante belle cose… ma perché dobbiamo sempre metterci la legge in mezzo? Credo sia più naturale dire: si fa e basta. Cerchiamo di farlo. A Napoli noi una volta abbiamo avuto una grande fortuna: un ragazzo del settore giovanile ha detto che si sentiva male e uno dei nostri medici, molto bravo, gli ha detto: ‘Adesso vai a farti un po’ di analisi’. Ha fatto le analisi ed è risultato un inizio di leucemia, durato per due anni, all’ospedale Pausillipon, dopodiché è guarito però e adesso è vivo, vegeto e i genitori sono contentissimi, li ho incontrati, sono commoventi, lui è un ragazzo eccezionale, non so se gioca ancora a calcio, forse no, prima giocava nelle giovanili del Napoli, ha smesso per due anni.

Però gli ha salvato la vita.
Ed è troppo contento di vivere, di esserci, un ragazzo dal grande cuore; l’ho visto ultimamente tre anni fa: bravo, bravo, bravo!

Una nota lieta per chiudere: la sua passione per i motori, come nasce questa passione?
Io vengo da un paese qui vicino (provincia di Benevento ndr), e nei paesi quando eravamo ragazzi esistevano le moto e le macchine e basta. Mio padre non mi ha mai assecondato in questa passione, avevo degli zii, fratelli di papà e fratelli di mamma, che invece erano appassionatissimi e mi hanno trasmesso questa passione. Poi, in fondo, come funziona il motore di una macchina, una moto, è molto simile a come funziona un essere umano, una biomeccanica.

Bellissimo! Siamo delle moto/auto umane?
Sì, però c’è una grande differenza: se una moto, un’auto non va, cambi il carburatore e dopo va; l’essere umano no.

Non esistono pezzi di ricambio…
Non solo, anche se cambi e metti una protesi non è detto che funzioni, perché c’è il cervello che comanda tutto ed è quello che condiziona tutto.

È il momento dei ringraziamenti Dottore…
Ne abbiamo nominati tanti, io avrei nominato tutti, ma veramente. Avrei nominato tutti perché, in 14 anni, tutte le persone che ho incontrato e conosciuto mi hanno dato qualcosa: mi hanno fatto crescere, mi hanno fatto riflettere, mi hanno insegnato cose. Io non posso dire adesso: ‘Non sono contento di quello che ho fatto’, io sono contentissimo.

E possiamo dire alla maniera del compianto Franco Califano ‘Non escludo il ritorno’?
Mah, non lo so, può darsi. Io lo spero sempre, lo spero sempre perché le emozioni che ho avuto a Napoli non le ho avute da nessuna parte. Quindi lo spero.


Intervista a cura di Maria Villani