A cura di: Maria Villani
Fonte: Il Mattino
L'ancelottizzazione del Napoli, in fondo, non è così complicata. È arrivato al Real raccogliendo il testimone da Mourinho, è arrivato al Bayern prendendo per mano gli orfani del padre fondatore del tiki-taka, Guardiola: che volete che sia, per Carletto mettersi alle spalle Maurizio Sarri? Lo sta facendo in punta di piedi, senza proclami o azzardi. Con la Lazio si è affidato al blocco azzurro degli ultimi anni, con pochissimi ritocchi e poggiando quasi per intero il suo gioco sulle vecchie idee e sul 4-3-3. Lui non deve dimostrare niente a nessuno e sa che c'è tempo per imporre il suo pensiero. E che prima o poi lo farà: «Devo migliorare le cose buone fatte dal mio predecessore - dice - e se non sono rimasto a casa è perché penso che si possa fare».
Per spiegare il primo Napoli di Ancelotti visto all'Olimpico è sufficiente una solo concetto: buon senso. Il suo modulo di riferimento è stato quello con cui la squadra ha giocato negli ultimi tre anni. Nessuna rivoluzione, cose semplici e fiducia nei singoli: è la saggezza che gli deriva dall'esperienza di chi ha navigato in mari di ogni tipo. Contro l'entusiasmo della Lazio, ha contrapposto un calcio semplice. Per lui è valsa la regola dell'incudine e del martello: ha fatto aspettare il Napoli con pazienza (che non significa con rassegnazione) e ha poi attaccato con coraggio. Prendendo in pugno la gara. Del possesso finale, a lui, non importa nulla. È stato un caso. 61% a 39%. Non perderà un solo secondo su questo dato, che per lui conta zero.
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